Dai precedenti focus si sarà portato a casa un insegnamento: tutti i beni appartenenti alla categoria della c.d. comunione de residuo cadono in comunione solo ed eventualmente allo scioglimento della comunione legale. Non resta che confrontarci con un dato normativo piuttosto laconico. Ecco perché è sempre stato fortemente discusso in cosa concretamente consista il diritto che viene a maturare in capo al coniuge non imprenditore su questi beni al momento della cessazione della comunione legale. Dal momento che l’istante stesso in cui tale diritto sorge coincide con una situazione in cui la comunione legale non risulta più in essere, è gioco forza escludere che possa trattarsi della titolarità in quote ideali e astratte tipica dei beni in comunione legale.
L’alternativa su cui per anni si è ragionato era quella tra:
- L’instaurarsi di un’autentica comunione necessariamente ordinaria con tanto di riconoscimento di una natura reale di tale diritto.
- Mero diritto di credito
A dissipare ogni dubbio ci ha pensato di recente la Cassazione a Sezione Unite. In data 17 maggio 2022 con pronuncia n.15889 gli Ermellini espressamente si sono schierati a favore della tesi del diritto di credito. Quindi i beni in un primo momento sarebbero del coniuge imprenditore. In seconda battuta, allo scioglimento della comunione, il bene rimane del solo coniuge acquirente mentre l’altro matura un diritto di credito pari alla metà del valore del bene acquistato in comunione de residuo.
Sono almeno tre i validi argomenti che avrebbero orientato la Suprema Corte a definitivamente sposare la tesi del dritto di credito.
Anzitutto, la maggiore tutela offerta ai creditori dell’impresa, i quali hanno fatto affidamento sulla consistenza dell’azienda ritenuta di proprietà esclusiva dell’imprenditore al momento della concessione del credito. La loro garanzia sarebbe, invece, caducata qualora il diritto del coniuge fosse di natura reale.
Ancora, tale lettura valorizza l’impresa. Nell’istante stesso in cui, invece, metà della azienda dovesse risultare dell’altro coniuge in una fase in cui, tra lo altro, c’è crisi con il proprio partner, il rischio gravissimo sarebbe quello di vedere realizzarsi la dissoluzione dell’impresa. La soluzione proposta accorda, in buona sostanza, una maggiore sicurezza all’imprenditore, assicurandogli una certa libertà nella gestione di impresa.
Infine, ma non da ultimo, verrebbe così messo al sicuro il coniuge non imprenditore. Gli si evita l’esposizione ad una responsabilità illimitata con l’evidente beneficio di una condizione più tutelante.